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Domenica, 28 giugno 2015

Se da un lato sul tema e concetto di innovazione ormai tutto – o quasi – conosciamo, quando si parla di disruptive innovation dubbi e perplessità assalgono le nostre menti. Perché quest’ultimo argomento, sebbene molto sentito a livello internazionale, si è insinuato da poco nel nostro dibattito interno, sulla scia della rivoluzionaria ondata di innovazioni digitali che sta comportando, nel sistema delle imprese, cambi radicali capaci di rimettere in discussione gli stessi assetti socio-politici del Paese. Pensiamo ad esempio, nel nostro quotidiano, ai servizi di messaggistica tramite WhatsApp o Facebook Messenger e ai consequenziali effetti dirompenti nel mondo delle telecomunicazioni o all’impatto del modello di business “no frills” di Ryanair nell’industria dei trasporti aerei. Queste non si possono considerare solo evoluzioni tecnologiche: siamo di fronte a veri e propri cambi di paradigma capaci di aprire nuovi mercati ed impattare in modo significativo sull’intera società. Di “innovazione incrementale” si parla quando un’azienda, che opera in mercati maturi, pianifica una strategia mirata al miglioramento graduale di un prodotto di successo per non accollarsi il rischio potenziale di lancio di prodotto ex novo. In tal modo lo studio di nuove funzionalità e perfezionamenti negli attributi consentiranno all’azienda di mantenere alta la fidelizzazione del cliente, capace di percepire il valore aggiunto della miglioria apportata. Pensiamo in questo caso ai vari restyling di Apple sugli Iphone lanciati sul mercato. Diametralmente all’opposto agisce la disruptive innovation, offrendo al mercato un insieme di funzionalità completamente nuove e spesso lontane da quelle attese e/o richieste dagli attuali clienti. Perché sono innovazioni che portano ad una ridefinizione del prodotto proposto per consentire semplificazioni e, di conseguenza, aumento dell’accessibilità e riduzione del costo dell’innovazione introdotta. Dalla produzione degli ingombranti e costosissimi mainframe computers degli anni ’60 agli smartphones dei giorni nostri, la disruptive innovation ha agito per far convergere l’industria informatica con quella delle telecomunicazioni, portando le funzionalità del computer nelle tasche di ciascuno di noi. Questi esempi devono farci percepire l’urgenza di provare a ripensare e ridefinire il nostro modo di porci nell’arena competitiva del settore in cui operiamo. Perché “today every business is a digital business”. E in quest’ottica, ogni impresa può provare a riposizionarsi e godere della nuova linfa vitale offerta dalle tecnologie digitali e dalle trasformazioni negli stili di vita da esse indotte. Pensiamo alla nuova vita dell’orologio, la cui funzione primaria è stata soppiantata da cellulari e tablets. Perché l’orologio non è morto; da gioiello ad accessorio di moda fino a strumento per misurare le prestazioni sportive o i parametrici di interesse medico, l’orologio ha solo acquisito nuove funzioni per soddisfare bisogni ed esigenze differenti rispetto al suo scopo originario. Ma ci sono anche situazioni ove l’avanzamento tecnologico manda in crisi un sistema che non può evolversi ed è destinato a dissolversi per lasciare spazio al nuovo. Pensiamo ad esempio alle difficoltà del mercato editoriale, alle librerie, che soffrono gravemente sotto il giogo di una rete sempre più rapida e democratica; alle catene retail tradizionali e ai centri commerciali che pagano a caro prezzo l’avvento dell’e-commerce. E’ indiscusso tuttavia che i periodi di cambiamento rappresentino anche grosse opportunità per riposizionarsi nei nuovi contesti che si vengono a creare. Opportunità che saranno colte solo da chi, con metodo e determinazione, sarà capace di una visione sul futuro che gli consenta di concentrare le risorse nella giusta direzione, senza accanirsi nel mantenere in vita attività dalla morte certa. Perché la conservazione fine a se stessa, di chi non vuole accogliere il progresso dell’innovazione tecnologica, è uno dei mali del nostro Paese.