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Domenica 8 MARZO 2015
In un contesto economico incline alla creazione di variopinti alibi e abbondante clamore ci siamo dimenticati delle imprese, di chi produce, di chi fa fatica a costruire un progetto e lo difende con tutta la forza che ha. In questi duri anni, e soprattutto nei prossimi, abbiamo una sfida importante da portare avanti: accrescere competenze e dimensione delle nostre imprese. Aprire orizzonti geografici e culturali è ormai condizione indispensabile per sopravvivere, perché consente di suddividere i rischi e far aumentare le opportunità di crescita. Consci, lungo questo percorso in salita, di non essere nemmeno a buon punto, continua il computo sommesso dei fallimenti di chi è caduto. La soluzione però è credere nelle imprese, aiutarle, sostenerle, liberarle dai mille vincoli burocratici che sottraggono soldi e tempo. Perché i costi della burocrazia rubano risorse ai sogni e al nostro futuro. E poi ci sono loro, le start-up, che hanno il compito di rivitalizzare il mercato con soluzioni innovative e alternative che, in alcuni fortunati casi, hanno effettivamente consentito di rivoluzionare interi processi organizzativi o intercettare bisogni ancora inespressi. Ma nel sistema start-up il mondo, ormai, eccede. Ed è sempre più un business per chi vi pascola attorno. Basta illudere i ragazzi, basta giocare coi loro sogni. Una partita iva non ti rende imprenditore. Per fare impresa ci vogliono idee, fatica, una squadra, competenze, e soldi. L’innovazione non nasce da una app per I pad; nasce nelle Università, nei centri di ricerca, attraverso le multinazionali che investono, insieme alle aziende che fungono da incubatori per i propri dipendenti. Troppo spesso, e sempre più, assistiamo ai proclami di chi conta che, finanziando qualche premio, mirano solo ad accrescere la propria redemption sul mercato. Questi giovani hanno bisogno di politiche strutturate di lungo periodo, di investimenti seri in cultura. Gli sforzi devono essere mirati ad agevolare lo scambio di competenze tra imprese tradizionali e start-up. Il nostro è un Paese manifatturiero e non possiamo permetterci di abbandonare o dimenticare chi produce. Sostenere le imprese è un gesto doveroso verso chi ha sempre generato gettito per le casse dello Stato. Non aiutarli significa solo farci del male. Tre anni fa l’Agenzia delle Entrate ha individuato 35 inutili e potenzialmente eliminabili adempimenti, sui 108 cui sono soggette le nostre imprese (e noi commercialisti che le seguiamo). Non pare quindi abbiano torto imprese e categorie a battersi per una semplificazione e riduzione soprattutto delle comunicazioni, troppe, e spesso inutili, duplicazioni con inevitabili strascichi di complicazioni di tempo, burocrazia e costi. Una maggiore informatizzazione della PA non potrebbe che avere effetti positivi sui controlli stessi. Per riacquisire fiducia abbiamo bisogno di lavorare senza l’assillo di uno Stato rapace e inconcludente. Chi produce non è mai stato coccolato in questo Paese, è dotato di anticorpi, ma non gli si può chiedere di restar soffocato da debiti fatti da altri. Se saremo capaci di liberare il mercato da rendite di posizione, da monopoli, da oligarchie ormai decotte, gli imprenditori torneranno a sporcarsi le mani e a investire. Imprenditori che sono sempre più soli ed aggrappati all’ultimo barlume di coraggio. Per crescere bisogna ripartire chiedendosi cosa è meglio per imprese, giovani e cultura. Start-up non è una App, non è una Srls, né una società in un elenco di imprese innovative. Startup è moderna cultura del lavoro.